L'inizio del viaggio

Ad aprile 2021 è terminato il mio ultimo rapporto lavorativo, in una modalità brusca e inaspettata, ma complessivamente positiva. Eravamo tutti immersi nella complessità del periodo pandemico e perdere il punto di riferimento professionale è stato un colpo significativo. Peraltro un lavoro per cui io e la mia famiglia avevamo cambiato città, quindi quello professionale era il legame più forte col territorio in cui stavamo vivendo. D’altro canto le condizioni di separazione dall’azienda erano economicamente molto buone ed ero felice di allontanarmi da un posto di lavoro con relazioni umane molto difficili e pesanti, in alcuni casi assolutamente tossiche.
Istintivamente la prima reazione è stata quella di cercare un altro lavoro, completamente da remoto, in una piccola azienda in crescita, dove poter avere la libertà di concentrarmi il più possibile sullo sviluppo delle persone. Ho sempre lavorato in ambito IT, a stretto contatto con la tecnologia, ma il mio interesse principale è diventato nel corso del tempo quello di creare le condizioni per favorire la crescita delle persone che lavoravano con me.
Durante il mio ultimo incarico avevo portato avanti questo intento senza un forte sostegno da parte dell'azienda, come attività a latere rispetto alla normale operatività. Inoltre stavo cercando di organizzare un ciclo di counseling aziendale, per dare un sostegno più strutturato a questo processo e uno strumento di supporto durante il periodo pandemico che nella nostra azienda avevo creato dinamiche di stress molto elevate. Purtroppo non sono riuscito a farlo in tempo, ma avevo interesse a coltivare questa strada.
Volevo trovare un incarico in un’azienda che mi permettesse di continuare questa attività con pieno sostegno. Così ho cominciato a guardare quasi solo aziende straniere, giovani startup con una forte motivazione a prendersi cura delle persone che vi lavorano all’interno, sostenendo la formazione a tutto tondo (non solamente delle competenze “tecniche”) come parte integrante della dinamica lavorativa e non come attività secondaria.
Ho trovato molte possibilità, ruoli perfetti con ottime proposte economiche in aziende dinamiche e in buona parte allineate alle mie esigenze. Ho fatto decine di colloqui e mi ritrovavo quasi sempre nella stessa situazione: dopo numerosi colloqui, in cui sembrava che le stelle fossero perfettamente allineate, venivo scartato all’ultimo stadio del processo. Molti mi dicevano che avevo un’ottima esperienza, che avevano preferito un altro candidato solo per una competenza molto specifica o perché erano già in fase avanzata di negoziazione, che ero piaciuto molto, bla bla bla, ma alla fine non mi offrivano un lavoro. Questa situazione è andata avanti per diversi mesi, con una notevole frustrazione.
Nel frattempo alcuni investimenti finanziari che avevo fatto nel corso degli anni precedenti stavano maturando molto bene e così ho cominciato ad accarezzare una possibilità. La possibilità di non cercare un altro lavoro e di iniziare a fare le cose che veramente mi interessavano. Erano anni che sognavo un “sabbatico”, un periodo di osservazione, di sperimentazione, di tempo rilassato. Svegliarmi la mattina e fare per lo più quello che avevo voglia di fare, senza dover confinare le cose che amavo veramente ai ritagli di tempo. Avevo in mente di ricominciare a studiare matematica e fisica da zero, volevo dare più spazio all’attività fisica e alla meditazione, volevo avere più tempo per leggere, per dedicare maggiore attenzione alla mia famiglia, insomma, più tempo per quello che avevo voglia di fare, senza preclusioni. La mia carriera lavorativa era sempre stata un susseguirsi di esperienze ricche ma faticose, nelle quali non ero mai riuscito a trovare una piena soddisfazione. Per cui ero determinato a prendermi un tempo indefinito, in attesa che maturasse un intento profondo, un desiderio autentico che potesse guidare una nuova fase della mia carriera e della mia vita.
Così ho cominciato a mettere in pratica questa possibilità. Ho chiuso alcuni progetti che avevo in corso, ho liquidato i miei investimenti e ho iniziato a vivere “a tempo pieno”. La pratica costante era già una parte fondamentale della mia vita: venivo da diversi anni di Shaolin Kung Fu, pratica dalla quale avevo avuto l’occasione di incontrare il Qi Gong e la meditazione, entrambe nel corso del tempo integrate nella mia pratica quotidiana. Dato che ne avevo la possibilità, e complice la vicinanza di boschi e montagne, ho cominciato anche a praticare corsa in montagna e sci alpinismo. Sentivo un grande desiderio di stare in mezzo alla natura, di esplorare, spesso in solitaria, luoghi “remoti”. Anche se cadevo nel tranello della dinamica performativa, che nel mondo sportivo è molto forte, quello che amavo davvero erano i luoghi meravigliosi che avevo la possibilità di attraversare e le sensazioni che emergevano nel frattempo. Amavo la sensazione dei muscoli stanchi, il sudore, il fango, il sentirmi sporco, amavo incontrare gli animali selvatici, la meraviglia e la paura di un incontro inaspettato e fuori dagli schemi della “civiltà”, amavo l’odore dei boschi, i rumori della notte, la pioggia, il freddo pungente o il caldo atroce, i profili delle montagne. Vedere le montagne mi ha sempre trasmesso un senso di pace, quando le vedo, ovunque io sia, mi sento a casa. E la neve, quel meraviglioso manto bianco, con la sua morbida, ovattante e magica delicatezza, ma allo stesso tempo con la sua travolgente potenza.
Queste pratiche mi hanno nutrito profondamente, mi hanno fortificato. Sentivo il desiderio, la necessità di irrobustirmi, di essere in grado di sostenere sforzi sempre più intensi, non solo per le dinamiche performative, ma perché sentivo di dover affrontare un’avventura che avrebbe richiesto il sostegno di quella forza. Era una sensazione vaga, ma molto potente.
E poi è arrivato l’incontro con la meditazione Vipassana.
Come ho detto poco fa, ero entrato in contatto con la meditazione attraverso la pratica delle arti marziali, fino a che nel 2016 ho iniziato a praticarla con continuità. Proprio in quel periodo lavoravo in un coworking e un giorno una ragazza che lavorava in un’altra società mi ha raccontato la sua esperienza ad un ritiro Vipassana. Un ritiro di Vipassana comporta un tempo (solitamente 7-10 giorni) di isolamento e protezione quasi totale, si pratica in gruppo ma vige per l’intera durata il “nobile silenzio”, ovvero niente dialoghi o contatto visivo con i partecipanti, niente telefono, musica o “inquinanti” di qualunque genere (alcol, caffè, carne, droghe, ecc). Il racconto da parte di questa ragazza della sua esperienza è stato molto toccante, in quanto la pratica intensiva aveva fatto emergere un trauma personale molto importante e aveva portato ad uno scrosciante pianto liberatorio. Questo racconto ha mosso in me delle corde profonde, al punto che durante gli anni che seguirono non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea di provare un ritiro Vipassana.
Così all’inizio del mio periodo sabbatico ho deciso che era arrivato il momento. Il ritiro che ne è seguito è stata una delle esperienze più ricche della mia vita e ha dato il via ad un nuovo corso, durante il quale ho continuato e continuo il mio percorso di ricerca.
Ricerca di cosa?
La direzione che avevo in mente era “Liberarmi e fiorire”. Liberarmi da cosa? Dai pesi del passato, dall’incapacità di godere a pieno della vita, dal pilota automatico che governa i miei pensieri e le mie azioni. Il desiderio profondo era ed è quello di conoscermi, scoprire come sono fatto, come funziono, e far emergere piano piano la mia natura profonda, il mio Sé. Avevo in mente alcuni frangenti “idilliaci” della mia vita, in cui mi sembrava di aver vissuto momenti di piena soddisfazione, in cui avevo avuto la sensazione di camminare ad un metro da terra ma allo stesso tempo in pieno contatto con la terra. In maniera molto istintiva volevo che quelle sensazioni fossero parte integrante e duratura della mia vita. Volevo andare a fondo, sviscerare le dinamiche che mi impedivano di raggiungere quella piena soddisfazione, volevo avanzare nella vita con il vento in poppa. Non nel senso di avere una vita senza difficoltà, anzi, ma nel senso di essere in scia, di essere sul mio cammino, di sentire una forza remota che mi guida e sostiene nel percorso della vita. A volte anche verso le tempeste, che molto spesso dobbiamo attraversare per vedere nuove terre e nuovi orizzonti.
Questa motivazione mi ha spinto in molte direzioni e così ho accumulato nel corso del tempo un bagaglio di esperienze di “crescita personale” molto ampio e vario. E’ diverso tempo che rifletto su cosa fare di tutto questo. Tante volte sono stato tentato di iniziare a condividere queste esperienze, di cominciare a trasmetterle, a insegnarle. Mi sono sempre bloccato di fronte al fatto che non sapevo che forma dare a questa pratica, ho fatto tante cose, alcune per un tempo relativamente breve e quindi non avrei l’esperienza necessaria per trasmetterle. Dall’altro lato non volevo confinarmi a nessuna di esse, perché credo che la ricchezza della mia esperienza sia legata all’orizzontalità, al fatto di guardare le cose da lati diversi.
Ma ritiro dopo ritiro la mia intenzione si è consolidata sempre di più e, al rientro dall’ultima esperienza (avvenuta poche settimane fa), è emerso cristallino il desiderio di trasformare tutto questo ambito in un “lavoro”. Così, non sapendo da dove partire, ho deciso di cominciare a raccontare questa ricerca, per aiutarmi a sedimentare i frutti e per condividere con altre persone in viaggio, o che intendono mettersi in viaggio, le conoscenze, le persone e le esperienze che ho maturato.
Il viaggio parte dalle arti marziali, in particolare lo Shaolin Kung Fu, prosegue con il Qi Gong, la meditazione, la psicoterapia in varie forme, lavori individuali o di gruppo più o meno strutturati, la metagenealogia, l’Hara Yoga, lo Yoga Tantrico Kashmiro, la respirazione olotropica e molto altro. Voglio raccontare le cose in cui mi sono imbattuto, magari anche superficialmente, ma che sono state significative nel mio percorso di “apertura”, per ampliare il mio sentire. Non mi concentrerò solo sulla mia esperienza diretta, ma soprattutto sulle caratteristiche che rendono una determinata disciplina, esperienza o conoscenza particolarmente rilevante, su ciò che penso la rendano un buono strumento per aprire dei varchi. Nonostante questo, tutto quello che scriverò è frutto della mia esperienza e conoscenza personale, quindi inevitabilmente “di parte” e potenzialmente “sbagliato”, non rappresenta alcuna verità assoluta ma semplicemente un mio spontaneo desiderio a condividere.
Inevitabilmente verrò colto da dinamiche egoiche, di superiorità, così come dalla paura di rivelare ambiti che considero molto personali e privati. La dinamica del primino della classe e l’arroganza, così come la paura di espormi e di rivelarmi, mi hanno accompagnato per tutta la vita e, seppur abbia odiato profondamente queste parti di me, oggi le accolgo tra le tante altre che mi abitano e ne riconosco il valore e il sostegno, oggi le vedo come alleate di questo percorso. Sto tremando mentre scrivo e questo mi dice che sto esplorando un limite importante, un confine, una protezione che ha avuto un ruolo molto importante (e positivo) sinora, ma che con grande umiltà, delicatezza e rispetto sento che è arrivato il momento di varcare.
Ho chiamato questo progetto “Pagina Bianca”. Nasciamo in questo mondo calati in una realtà fatta di infiniti fili, di infinite catene di cause-effetti che vengono dalla nostra storia genealogica e dalla Storia Universale. Per tutta la vita siamo stati soggetti a forze ed eventi che ci hanno modellati, che hanno rafforzato abitudini, consuetudini, attitudini e, nel migliore dei casi, nevrosi che nel corso del tempo hanno determinato chi siamo oggi, hanno scolpito la nostra armatura caratteriale, il nostro Io, il nostro Ego, la nostra identità. Questa costruzione ci accompagna e ci protegge nel corso della vita. Se siamo come siamo, se fumiamo, se beviamo troppo, se ci ammazziamo di serie televisive, di sport, di dolci, se la rabbia o la tristezza ci dominano, se ci isoliamo nella testa, nel cognitivo, nel lavoro, se abbiamo spesso il dito puntato contro tutto e tutti (compresi ovviamente noi stessi), se sbattiamo i talloni quando camminiamo, se abbiamo dolori cronici, se il nostro fisico ha certe peculiarità, tutte le nostre abitudini, attitudini e caratteristiche fisiche e mentali sono il risultato di questo processo e non sono né buone né cattive. Semplicemente sono. Sono le tattiche che ci hanno permesso di sostenere le nostre sofferenze, sono le protezioni che abbiamo costruito per sopravvivere ai dolori che abbiamo dovuto affrontare.
Quando prendiamo consapevolezza di ciò, cominciamo a guardare le nostre dinamiche sempre più da vicino e così facendo iniziamo piano piano a scioglierle e a decomporre la nostra armatura, a spogliarci dei vestiti che abbiamo indossato per andare nel mondo. E così la nostra pagina, piena di scritte e di appunti che non sono nostri, comincia a svuotarsi, a cancellarsi, facciamo spazio. Facciamo spazio per far emergere ciò che siamo veramente, per dimenticare le parole scritte da altri, per accantonare gli scopi e le ragioni e abbandonarci al flusso della vita, arrenderci, smettere di resistere e affidarci a forze e movimenti che vanno ben al di là della nostra identità. La nostra pagina si schiarisce sempre di più, ci diseduchiamo, abbandoniamo tutto quello che ci hanno insegnato per aprirci ad un insegnamento spontaneo, autentico che non arriva dai libri, dalla morale, dalle tradizioni, dai valori del nostro tempo o della nostra famiglia, ma dal Cuore. Fino a diventare uno spazio vergine, una pagina bianca, dove tutto succede naturalmente, senza bisogno che lo facciamo accadere, dove la vita semplicemente scorre.
Scrivere queste parole mi fa un certo effetto, perché solamente pochi anni fa le avrei in buona parte bollate come una fattanza new age. Eppure c’era una forza che mi spingeva a perseverare, sentivo dei richiami, delle eco che mi guidavano in nuove direzioni, delle epifanie sul mio passato che si manifestavano pur essendo sempre state davanti ai miei occhi e, una volta rivelate, mi squadernavano davanti agli occhi una nuova realtà e mi davano nuova energia per proseguire il cammino. Sentivo il fisico trasformarsi, i muscoli distendersi, dolori cronici sciogliersi. Sembrava una magia e ancora oggi non riesco a capacitarmi delle cose che emergono ogni volta che aggiungo un tassello. E’ un po’ come avere i superpoteri!
Tutto questo ha nutrito la mia motivazione oltre ogni limite e oggi queste sono le mie parole e non riuscirei a esprimermi sinceramente in maniera diversa. Il modo in cui sono arrivato fino a qui è mio, ma ci sono infinite strade possibili e le mie suggestioni sono solamente questo, delle suggestioni. Quello che cercherò di raccontare sono delle possibilità, ma la direzione, ovvero essere in totale apertura e ricezione di ciò che ci abita e ci circonda nel momento presente, essere pienamente consapevoli momento dopo momento, quella è la direzione a cui tendono infinite vie, discipline e tradizioni dalla notte dei tempi. Possono essere vie progressive, fatte di duro lavoro e disciplina, oppure vie immediate, fatte di processi che lavorano sotto traccia e che improvvisamente ci catapultano in un sentire completamente nuovo. Nessuna è meglio di un’altra, ma solo una è la nostra e noi dobbiamo solo lasciare che si riveli spontaneamente.
In misura più o meno rilevante o cosciente, viviamo tutti in costante compagnia di un certo fastidio, di una insoddisfazione, di un lamento latente, di una sensazione che ci stiamo perdendo qualcosa. Possiamo scegliere di accettarlo come un male dovuto, ma, per quanto complicata la nostra situazione possa essere, possiamo darci una possibilità. La possibilità di seguire le suggestioni che emergono spontaneamente quando siamo in ascolto, perché se ascoltiamo c’è sempre una guida. Seguirla può essere difficile, può portarci a fare scelte “pericolose” e “drastiche” e questo richiede di abbandonare le proprie paure, richiede una certa dose di coraggio. Tentenniamo, tremiamo, ci sentiamo sull’orlo di un baratro. Ma se ci affidiamo a questa strada, piano piano ci riporta il sorriso sulle labbra che avevamo da bambini o che non abbiamo mai avuto.
Ultime due cose.
Ho deciso di dare a questa narrazione la forma di una newsletter su una piattaforma che si chiama Ghost (curiosa scelta per chi ha l’intento di rivelarsi! 🙂). Ghost è un servizio simile a Substack, ma alle cui spalle c’è una fondazione no-profit che pubblica in open source tutta la tecnologia che viene sviluppata per offrire il servizio. Niente investimenti da finanziatori esterni, niente dinamiche anganauei da startup milionaria, ma una rete di persone che collaborano, una vera comunità. E’ un modello che apprezzo molto, perché sento che quello competitivo ha esaurito il suo corso. E’ stato un modello estremamente utile, ci ha permesso come specie di raggiungere vette molto elevate, ma ha dei limiti oggettivi e ora credo sia venuto il momento di dare pieno spazio a quella dimensione collaborativa che ci contraddistingue e ci ha sempre contraddistinto nei momenti di forte crisi. Mi ha sempre stupito ed emozionato il fatto che durante le grandi tragedie gli esseri umani siano in grado di mettere in campo delle qualità estremamente positive e che dai grandi dolori e sofferenze venga spesso alla luce l’amore fraterno che ci unisce, a prescindere da etnie, sesso, nazionalità, religione e da tutti gli elementi divisivi che ci possono essere o che possiamo inventare. Nei periodi di prosperità questo amore fraterno cede il passo, viene relegato ad ambiti marginali (anche se sostanziali) della vita comunitaria. Però nella nostra epoca lo sviluppo tecnologico permette nuove possibilità e abilita una capacità di connessione e cooperazione senza precedenti. Non si tratta certo di dinamiche dominanti, ma esiste tutto un tessuto di gruppi più o meno formali che sta usando la tecnologia in questo senso e sento che per me è buono unirmi a questo corso.
Last but not least.
In questo spirito ho deciso per il momento di tenere la mia newsletter gratuita e di donare potenzialmente a tutti ciò che ho imparato. Nel farlo mi apro alla generosità degli altri, prendendo ispirazione dal concetto buddhista di Dana. La Dana, o generosità, è uno capisaldi del Buddhismo e della pratica della meditazione Vipassana. In questi contesti un insegnamento o un ritiro non si pagano, vengono donati gratuitamente. Rispetto a questo principio si possono riscontrare nella realtà molte variazioni, ma nella visione più ortodossa l’insegnamento è un dono dal valore inestimabile per cui non può avere un prezzo. Tutti devono avere la possibilità di goderne. E, come parte della pratica, si dà la possibilità di esprimere la propria generosità, vista come una delle qualità imprescindibili per proseguire sulla Via. In quasi tutte le religioni e tradizioni il valore della generosità viene tenuto in grande considerazione e se ci pensiamo bene molti ambiti della vita sociale sono basati sul dono. Basti pensare al fatto che alcuni dei servizi più importanti per la nostra sussistenza e il nostro benessere come gli interventi in ambulanza, le trasfusioni di sangue o la gestione di eventi critici (come incendi, calamità naturali, ecc) sono servizi basati in grandissima parte sul volontariato. Per non parlare dell’aiuto di varia natura che associazioni e singoli danno alle persone senza fissa dimora, alle mense gratuite, alle persone diversamente abili, all’insegnamento per bambini con difficoltà cognitive e/o economiche, alla tutela dell’ambiente e molto altro. Anche i lavori (mal) retribuiti comportano una parte di volontariato, come succede nel mondo dell’educazione e della sanità. In questi casi si dovrebbe parlare in maniera più appropriata di sfruttamento, ma per molte delle persone che lavorano in questi contesti l’educazione e la salute sono valori così importanti che sono spinti a fare anche più di quello che sarebbero tenuti a fare e questo spirito, a mio avviso, configura almeno una parte del loro lavoro come volontariato. Se ci fermiamo a riflettere, la nostra vita abituale sarebbe molto diversa se nessuno donasse nulla.
Quindi se volete dare a questo progetto la possibilità di crescere, se avete tratto o trarrete da questo lavoro un beneficio di qualche tipo, se pensate che vi abbia donato un valore autentico, se vi sentite grati per ciò che avete ricevuto, potete sostenere questa attività tramite una donazione. Donare è una grande prova, perché in una società basata sulla proprietà privata e sull’assegnare un prezzo ad ogni cosa, dare spontaneamente qualcosa che non è richiesto crea una specie di cortocircuito nella nostra testa. Ci mette di fronte all’opportunità di lasciare andare qualcosa di nostro, ma allo stesso tempo ci mette di fronte alla privazione spontanea. Permettersi di donare è un’arte da praticare e più lo facciamo e più ci diamo l’opportunità di osservare la nostra gratitudine e il desiderio di esprimerla seguirà naturalmente.
Ho riempito tante pagine, potrei andare avanti settimane a rileggere e aggiungere, ma è arrivato il momento di concludere. Ho scritto tante cose e ho bisogno di fermarmi qui, di lasciare depositare. Alcune delle cose che ho scritto forse vi avranno lasciati perplessi o vi avranno fatto arrabbiare, gioire, rattristare. E’ possibile che si scatenino giudizi, che sorga il desiderio di piangere, di urlare, di spaccare qualcosa. Tutto è possibile, tutto è lecito. Se vi è possibile potete fare un passo indietro, potete lasciare depositare queste parole, potete ascoltare le emozioni o le parti del vostro corpo che si sono risvegliate. Potete guardate i pensieri che sorgono, i muscoli che si irrigidiscono, la gioia che vi riempie. Potete sedervi come un umarel su una sedia fuori da un bar e guardare quello che passa sulla strada, senza giudicare, senza afferrare, ma solo godendovi il vostro bianchino.
Alla prossima puntata!