Muovere i primi passi

Muovere i primi passi

Ho iniziato a praticare Kung Fu a 15 anni, presso la palestra Refran di via del Fico a Bologna (e con un indirizzo così, non poteva che essere un successo 🙂). Negli anni precedenti avevo provato diversi sport, ma nessuno aveva fatto veramente click. Col Kung Fu è successo per me qualcosa di diverso, è scattato qualcosa, quel qualcosa che ci fa dire di essere nella giusta direzione. La scuola si chiamava “La scuola delle cinque Montagne Sacre”, fondata dai Maestri (Shifu in cinese) Gabriele Torricelli e Andrea Cazzola. Ho praticato in questa scuola per 4 anni, fino al termine della scuola superiore e del mio periodo bolognese. 

Quando entriamo in una palestra di arti marziali, come d’altronde in qualunque luogo ove la vita ci porti, ci sono tanti segnali che ci fanno capire immediatamente qual è l’atmosfera che la abita. L’abbigliamento e la postura del Maestro e dei praticanti, il modo in cui ci si relaziona prima e durante la lezione, il tono e le parole che vengono usate (o non vengono usate), la puntualità, la cura dell’ambiente in cui si pratica. Le sfumature possono essere tante, ma lo spirito che anima una scuola fondata su un amore genuino per le arti marziali e i suoi valori è sempre lo stesso. Uno spirito di fratellanza, amore, rispetto, cura, presenza, intensità. Il Kung Fu, come tutte le arti marziali con un’origine antica, è molto più di una disciplina “fisica” per “menare le mani”, in quanto intrinsecamente legato ad uno sviluppo personale e spirituale dell’individuo che è parte stessa della pratica. Si tratta di una vera e propria visione dell’essere umano e del mondo, legata a doppio filo ad una ricerca spirituale, anzi più si prosegue nella pratica e più ci si rende conto che la pratica è proprio pensata fin dal principio per aprire orizzonti “spirituali” (non amo troppo questo termine, ma credo che sia il migliore per capirci). Questa filosofia pervade ogni gesto che viene agito, ogni parola che viene pronunciata, ogni abito che viene indossato.
Un elemento particolarmente evidente lo si nota già all’inizio di una lezione, quando si svolge il saluto: gli allievi si dispongono su una riga di fronte al Maestro o alla Maestra, tipicamente in ordine di anzianità e grado, e c’è una breve, ma intensa, ritualità. Dura 10/15 secondi al massimo, ma dentro c’è un mondo. Durante il saluto c’è silenzio assoluto, tutti sono “nel momento”, il fatto stesso di prendersi un momento per celebrare l’inizio e la fine di una lezione, di una pratica in coppia, di un combattimento, di una forma, denota uno spazio protetto. Avvolgiamo la pratica in un manto, lasciamo fuori tutti i nostri pensieri, ansie, incazzature e siamo al 100% nella pratica. Il modo stesso in cui si esegue il saluto è significativo: la mano destra chiusa a pugno incontra la sinistra aperta di fronte al nostro petto, le braccia leggermente arrotondate. Probabilmente si potrebbe parlare per ore di questo gesto, ma il suo significato più immediato è che il pugno rappresenta la forza, la mano tesa rappresenta la mente-cuore che controlla la forza per evitare che sfoci in violenza, la rotondità delle braccia simboleggia la nobiltà d’animo e l’unità tra i praticanti. E questo già dice tutto della filosofia delle arti marziali: tutti gli sforzi che facciamo per diventare più forti, atletici, esplosivi e combattivi non sono mai finalizzati alla performance, alla prevaricazione, alla vessazione, ma la nostra forza è contenuta o controllata dalla nostra mente-cuore, che la guida e la governa con saggezza e amore. 

Questa simbologia ci introduce ad uno degli aspetti più affascinanti delle arti marziali antiche, l’esoterismo, che discende in buona parte dalle influenze taoiste, buddiste e tantriche che animano il terreno su cui si sono sviluppate le arti marziali. Nel mondo orientale non si spiega mai niente, si fa. Noi occidentali basiamo l’apprendimento in maniera rilevante sul racconto, sulle spiegazioni, sulla teoria, ma nella cultura orientale viene data maggiore enfasi all’esecuzione, basando l’apprendimento sull’esperienza diretta. Questo processo è indubbiamente molto più lento, ma il livello di comprensione che ne deriva è molto più profondo. Imparare qualcosa “sulla nostra pelle” deposita quella comprensione in noi stessi, non si tratta di una semplice nozione ma di una verità che diventa parte di noi, è impressa nelle nostre fibre e non ci abbandonerà mai più. 
Un simbolo non ha un significato immediato, la sua comprensione può avere molti livelli di lettura, il simbolo solletica, risveglia, stimola delle corde, ma non dice esplicitamente. Vedere ed esperire continuamente i simboli attiva un processo di comprensione, lento ma inesorabile. Inizialmente il simbolo non ci dice nulla, ma prima o poi nel corso della ricerca si rivela, ma solo ed unicamente quando sarà il momento, quando le condizioni necessarie saranno giunte a maturazione. Questo è il filo conduttore di tutte le culture esoteriche, orientali e occidentali. Ripetiamo un gesto, un esercizio migliaia di volte. Inizialmente lo scimmiottiamo, ma nel corso del tempo questo gesto diventa nostro. Lo guardiamo evolvere, lo vediamo sotto mille angolature diverse, lo facciamo quando non ne abbiamo voglia e quando siamo carichi a palla, quando c’è il sole e quando c'è la pioggia, quando è buio e quando c’è luce, quando è caldo e quando è freddo. Questa ripetizione lo fa depositare dentro di noi, lo facciamo evolvere insieme a noi e piano piano diventa un gesto naturale. E improvvisamente, un giorno come tanti altri, sbam!, rimaniamo folgorati da un’intuizione. Quel gesto, che abbiamo ripetuto infinite volte, che abbiamo amato, odiato, che abbiamo levigato, pulito, schiaffeggiato, sbeffeggiato, coccolato, improvvisamente ci svela qualcosa. La nostra comprensione sale di un gradino e, da quel giorno, lo vedremo, lo sentiremo e lo agiremo sotto una nuova luce. 

In questo percorso di rivelazione, il ruolo del Maestro è fondamentale. L’allievo si affida al Maestro, ciecamente, esegue senza chiedere, protestare, argomentare (qualcuno ricorderà il famoso “metti la cera, togli la cera” di Karate Kid). Il Maestro o la Maestra è considerato un essere umano di grande esperienza e sapienza, il Maestro conosce la natura profonda dell’allievo e sa che cosa è necessario per lui o lei. L’allievo un giorno capirà, ma per il momento si mette nelle mani del Maestro con fiducia totale, si affida completamente. Ovviamente il Maestro è un essere umano, è imperfetto, può sbagliare, può non essere così illuminato come sembra, può portarci su una strada tutt’altro che costruttiva. Questo tipo di dinamica è molto complessa, perché da un lato è innegabile che molte cose non si possono capire prima di averle provate con l’esperienza e il ruolo del Maestro è proprio quello di portare l’allievo a percorre i passi che sono necessari per aprirsi alla comprensione. Dall’altro lato però, non capendo “il perché”, rischiamo di finire in un posto nel quale non saremmo voluti andare. E qui subentra l’importanza del sentire, della sensibilità: più che “capire”, è importante “sentire” se la direzione che il Maestro ci sta mostrando è buona per noi. Ci affidiamo completamente, ma non perdiamo mai l’attenzione verso le sensazioni e le emozioni che il Maestro e il percorso che ci sta mostrando risvegliano in noi. Se ascoltiamo siamo in grado di cogliere i segnali e, anche quando ci troviamo di fronte a “prove” molto intense e sgradevoli, sappiamo distinguere tra ciò che ci fa bene e ciò che invece non va bene per noi. Il percorso può essere fatto di molte sfide e la fatica, la sofferenza non devono per forza farci fare un passo indietro. Ma ci sono anche fatiche e sofferenze non sane e noi dobbiamo essere in grado di cogliere la differenza. Si dice che un Maestro può solo mostrare la strada, ma che è l’allievo che deve percorrerla. E se troviamo un bravo Maestro, questi ci aiuterà soprattutto a trovare da soli la nostra strada, ci aiuterà a staccarci da lui o da lei, a renderlo superfluo, a risvegliare e ad affidarci ad un altro Maestro, il vero Maestro, quello che tutti noi abbiamo dentro e che spesso viene chiamato il Maestro Interiore. La fiducia cieca che un Maestro pretende è un pretesto per testare la nostra convinzione, per insegnarci ad avere fiducia in ciò che la vita ci pone davanti e a sentire istintivamente la strada che dobbiamo percorrere, anche se non sappiamo dove porterà. Durante la nostra esistenza ci troviamo continuamente in situazioni in cui scegliere: tra il certo e l’incerto, tra la testa e il cuore, tra il ragionare e il sentire. Molte delle scelte che facciamo (o che vorremmo fare) non hanno apparentemente alcun senso logico, eppure sentiamo che sono la cosa giusta. Anche questo tipo di attitudine richiede pratica e allenamento e la figura del Maestro, così intesa, ci aiuta a coltivare questa sensibilità.

La figura del Maestro o Maestra ha molte risonanze con la figura genitoriale del padre o della madre, ed è interessante osservare quali Maestri “ci capiti” di incontrare sulla nostra strada. Io ho praticato principalmente in due scuole, una a Bologna e una a Milano. In entrambe le scuole i Maestri fondatori erano due, due uomini, con caratteristiche molto diverse tra loro, quasi agli opposti e, dunque, estremamente complementari. Nella seconda scuola, Shaolin Wuseng Houbeidui Italy, di cui parlerò senz’altro nel prossimo post, questo è stato particolarmente evidente perché i Maestri Fondatori Walter Gjergja e Valter Carboni hanno rispettivamente ricevuto come nomi monastici Xing Mi e Xing Cang: gli ideogrammi utilizzati nei loro nomi significano “riso” e “ciotola”, il che rimarca in maniera esemplare il fatto che la loro natura è profondamente diversa, ma che sono complementari, fondamentali l’uno all’altro (provate a mangiare il riso senza ciotola o la ciotola senza il riso!). Queste figure di riferimento agli “opposti” hanno una grandissima eco nella mia vita personale. Non entrerò nei dettagli perché si tratta di una dimensione molto intima e che coinvolge altre persone a me care e vicine, ma è per me impressionante notare come la mia vita ruoti costantemente intorno agli opposti e come abbia riprodotto costantemente questa dinamica nelle relazioni che ho stabilito nel corso del tempo. Ovviamente questa è la mia storia, ma relazionarci con un Maestro (poco importa che sia un esperto di arti marziali, sci alpinismo, orticoltura, business, ricamo, sviluppo software o altro), una figura che percepiamo come “superiore”, di cui abbiamo stima assoluta, che crediamo invincibile e che, nel tempo, inevitabilmente mostrerà le sue “crepe”, risveglierà ricordi e sensazioni che hanno a che fare con la nostra storia e in particolare con i nostri genitori, i primi Maestri che abbiamo incontrato nella nostra vita. Anche il Maestro è un simbolo e, prima o poi, se saremo in ascolto, il simbolo si dischiuderà e rivelerà la sua verità, che ci aiuterà a liberare il nostro passato per essere nel presente. Si tratta di processi molto lunghi, che evolvono per gradi: alcune cose io le sto mettendo a fuoco ora, mentre scrivo a decenni di distanza, e chissà quante ancora non vedo. Ma se gli diamo spazio e cura, avvengono naturalmente.

Il mondo delle arti marziali è enorme: ci sono tanti tipi di arti marziali (Kung Fu, Karate, Judo, Muay Thai, ecc) e all’interno di ogni arte marziale esistono numerosi stili che poi ogni singola scuola reinterpreta a modo proprio, solitamente secondo l’esperienza del proprio Maestro o Maestra di riferimento, la capostipite del lignaggio. Tutte le arti marziali sono caratterizzate da una preparazione fisica molto intensa, le cui principali dimensioni sono forza, resistenza e flessibilità. Ogni scuola poi varierà l’allenamento in base alle peculiarità dello stile che viene trasmesso, prediligendo la parte superiore o inferiore del corpo, il combattimento o le forme, l’acrobatica o le posizioni più statiche. Ma le basi e lo spirito sono molto simili per tutti.
L’allenamento base in una scuola di Kung Fu è almeno 4 ore a settimana, di solito 2 lezioni da 2 ore, se poi ci prendiamo bene è solo l’inizio. L’allenamento è fatto da una prima parte di riscaldamento e scioglimento, cui segue una fase aerobica ad alta intensità (un mix di corsa, piegamenti sulle braccia, salti, scatti, piegamenti sulle gambe, ginocchia al petto, barpis, ecc), seguita poi dal riscaldamento dei calci, posizioni di base (Ma Bu, Gong Bu, ecc), brevi sequenze di posizioni di base combinate insieme (Ji Ben Gong), cadute/rotolamenti, sequenze di calci. Seguono esercizi di coppia di vario tipo, le forme e ovviamente il potenziamento di fine allenamento e, finalmente, lo stretching. 

E’ mortale! 

Io non ricordo dolori fisici più intensi nella mia vita rispetto ai dolori che mi hanno accompagnato i giorni seguenti i primi allenamenti di Kung Fu. 

Sentiamo il corpo. 

Sentiamo parti del corpo che non sapevamo neanche di avere, piccoli movimenti normalmente insignificanti risvegliano potentemente muscoli sfiniti, tendini infiammati, legamenti doloranti. Anche le ossa scricchiolano in modo diverso. Ci cominciamo ad abituare ad ascoltare questo involucro che ci sostiene nella vita e che normalmente trattiamo con grande noncuranza e disinteresse. Lo trattiamo male, lo riempiamo di sostanze nocive, di cattive abitudini eppure lui è sempre lì per noi. Questa educazione al sentire ci pone in un atteggiamento diverso. Più proseguiremo nella pratica più svilupperemo questa sensibilità e saremo in grado di ascoltare il corpo con attenzione e questo ci porterà ad amarlo e rispettarlo sempre di più, a ringraziarlo per il grande supporto che ci dà ogni giorno, a prendercene cura e avere rispetto per i suoi limiti.
E proprio i limiti sono la prima componente del nostro corpo contro cui sbattiamo la faccia durante i nostri primi passi nel Kung Fu, nelle sue componenti più basiche: quanta forza (istantanea) abbiamo? Quanto siamo in grado di resistere ad uno sforzo prolungato? Quanto siamo flessibili? All’inizio ci sentiamo semplicemente delle grandissime schiappe, anche perché intorno a noi vediamo allievi e allieve allenate che non sembrano minimamente subire quello che a noi sembra un supplizio atroce. Superate le prime settimane di dolori pressoché costanti, i nostri muscoli cominciano ad abituarsi al ritmo intenso degli allenamenti e cominciamo ad avere anche una maggiore presenza. Inoltre abbiamo avuto la possibilità di osservare gli altri/e praticanti e anche questo ci permette di guardare meglio noi stessi. Una prima valutazione interessante che possiamo fare sul nostro fisico è la seguente: come valutiamo il nostro fisico rispetto alla forza, alla resistenza e alla flessibilità? Sono prevalentemente forza, resistenza o flessibilità? Qual è la dimensione meno sviluppata del mio fisico?
Io per esempio ho un’ottima resistenza e una discreta flessibilità, la forza è sicuramente la dimensione più debole del mio fisico. Ma rispetto alla forza c’è una componente molto particolare, ho molta forza nelle gambe e poca nella parte superiore del busto, in particolare nelle braccia. Ho passato anni ad allenarmi in maniera mirata per sviluppare di più le spalle e le braccia, sollevando pesi o facendo nuoto, ma le mie braccia rimangono sempre quelle di un uccellino 😂. Allenamento dopo allenamento mi sono reso conto che la forza istantanea, i movimenti fulminei sono quelli per me più carenti, posso invece sopportare sforzi prolungati per tanto tempo e posso allungarmi notevolmente. Se portiamo questa valutazione su un piano più alto, possiamo vedere come queste caratteristiche del nostro fisico si manifestano negli altri ambiti della nostra vita. Se consideriamo queste caratteristiche in maniera più astratta, che cosa rappresentano? Come si collocano nella nostra vita di tutti i giorni? 
La forza è la nostra capacità di agire nel mondo, di “plasmare” la realtà che ci circonda. La forza ci dona sicurezza in noi stessi, ci fa sentire protetti, ci fa sentire protagonisti. La forza è un elemento abilitante, creativo: posso sollevare o spostare qualcosa, posso allontanare qualcuno, posso mettere una distanza, posso non lasciarmi invadere. La resistenza invece è la capacità di sostenere la realtà, ha più a che fare con un atteggiamento di accettazione. Resistere, sopportare ci rimanda alla nostra capacità di accettare le condizioni presenti, qualunque esse siano, e starci. Curiosamente ha molto a che fare con il suo contrario, l’arrendersi, perché sopportare uno sforzo per tanto tempo significa arrendersi al dolore e alla fatica, accettarli per quello che sono, significa smettere di alimentare la sofferenza attraverso il pensiero. Posso percorrere lunghe distanze, posso muovermi nel mondo, lo posso attraversare. Infine la flessibilità ci rimanda alla capacità di adattarci, modellarci, trovare il nostro spazio nel mondo. Essere flessibili, fluidi ci permette di prendere la forma dello spazio che incontriamo, di stare in qualunque contenitore senza però cambiare la nostra natura. 
Queste tre dimensioni ci restituiscono il modo in cui ci interfacciamo con la realtà che ci circonda, il modo in cui siamo o meno in grado di incidere su di essa, il modo in cui siamo o meno in grado di sostenere le circostanze e il modo in cui siamo o meno in grado di adattarci (senza snaturarci). Tutti e tutte ci confrontiamo costantemente con queste dimensioni nella vita di tutti i giorni e il nostro “stare nel mondo” è in buona parte una combinazione di queste componenti. 

Il limite però è fluido, è dinamico, evolve. In un mondo come quello delle arti marziali siamo costantemente portati ad andare oltre i nostri limiti, ad uscire dalla nostra “comfort zone”. Vedere altri che saltano più in alto, che fanno la ruota senza mani, che fanno più piegamenti sulle braccia o più squat di noi ci motiva enormemente. Ma dobbiamo stare attenti, dobbiamo essere presenti, perché rischiamo di spaccarci. L’esplorazione del limite, parte prima di tutto dall’accettazione del limite, dalla consapevolezza. Il mio corpo è fatto in un certo modo, ha una storia e se ieri non ero in grado di fare più di 10 piegamenti sulle braccia, oggi non ne posso fare 100. Forse ne posso fare 15, magari 20, ma oltre un certo limite rischio solo di farmi male. Forse ci potrò arrivare, se continuerò ad allenarmi, ma oggi devo fare i conti con le mie possibilità attuali. Esplorare il limite delle proprie possibilità è fondamentale per evitare di ristagnare, ma in questa esplorazione devo portare tutta la grazia e la delicatezza possibile, perché un limite è sempre in primis una protezione. Il mio corpo crea le condizioni che la mia mente interpreta con pensieri di fatica e sofferenza, perché il corpo sa che quella soglia è un limite e non vuole che si crei un danno. Ha un ruolo sano e di questo devo avere rispetto. Il limite va prima di tutto visto e accolto, guardato, studiato e, solo quando mi sento veramente pronto, posso varcarlo. Capita ovviamente di farsi prendere dall’entusiasmo, di farsi trascinare e andare troppo oltre, e il nostro fisico gentilmente ce lo fa notare. Ci infortuniamo. Anche se di solito ci limitiamo ad arrabbiarci col nostro fisico e con noi stessi, fase a cui segue invariabilmente il giudizio verso il nostro fisico e noi stessi (“Ahhh che schiappa che sono! Ahhh se avessi iniziato ad allenarmi prima invece di bere delle birre! Ahhh se non avessi tirato così tanto! Ahhh se mi alzassi prima la mattina e mi allenassi di più!”), l’infortunio è anch’esso una grande possibilità di esplorazione e di sviluppo di consapevolezza. Dal giorno in cui ci facciamo male, quella parte del nostro corpo non sarà più la stessa e tutte le atlete e gli atleti hanno prima o poi un “acciacco” che li accompagnerà per sempre, che si risveglierà nei momenti di particolare stress, che andrà curato e coccolato. E anche questo, forse soprattutto questo, ci permette di conoscere il nostro corpo, perché non c’è attenzione maggiore di quella che si risveglia quando ci facciamo male. 
Nelle arti marziali c’è una tendenza aggressiva nei confronti del limite: il nostro corpo viene sottoposto ad uno stress molto intenso, ci tiriamo, contorciamo in tutti i modi possibili, il focus è spesso posto sull’andare oltre il limite. Questa è una condizione in qualche modo necessaria, perché una delle componenti fondamentali delle discipline marziali è per l’appunto la marzialità: soprattutto nel passato lo studio delle arti marziali era finalizzato in buona parte al combattimento e in generale a sostenere sforzi molto intensi, per cui il corpo doveva raggiungere livelli di forza, resistenza e flessibilità elevatissimi e per raggiungere questi livelli è necessario in un qualche modo forzarlo oltre i propri limiti. Altre discipline, come lo Yoga o il Qi Gong, hanno un approccio completamente diverso all’esplorazione del limite, più raffinato, in cui il corpo non viene forzato in alcun modo ma si ricerca il vuoto, l’assenza assoluta di sensazioni, per lasciare che il corpo spontaneamente si apra e riveli i suoi segreti senza alcun tipo di forzatura, solo quando tutte le condizioni saranno maturate. Sono approcci molto diversi, complementari e per me è bello frequentare entrambe le modalità, ci sono momenti buoni per un approccio e momenti buoni per l’altro. Entrambi ci permettono di esplorare il limite, guardandolo da punti di vista diversi.

Il concetto di limite a me rimanda immediatamente ai confini territoriali. C’è uno spazio particolare poco prima e poco dopo un valico di frontiera, quasi magico. Mentre ci avviciniamo alla frontiera il territorio assume improvvisamente delle caratteristiche particolari, sentiamo istintivamente che ci stiamo avvicinando ad un varco. L’architettura cambia, i negozi sono diversi, anche le persone hanno espressioni particolari. Entriamo in uno spazio di enormi possibilità, nell’arco di pochi chilometri le regole cambiano, la moneta cambia, la lingua cambia, il cibo cambia, le abitudini cambiano. Eppure c’è una grande fluidità, grandi possibilità di scambio, di contaminazione perché in quello spazio tutto è condensato. Troviamo pezzi della realtà da cui proveniamo e pezzi del mondo in cui stiamo per entrare, è il luogo in cui i “buchi” tra le regole creano opportunità, in cui si sviluppa il contrabbando, è il luogo in cui la diversità si incontra e diventa un micro-mondo a sé stante. I pochi chilometri che ci avvicinano al confine contengono segnali di ciò che ci aspetta, così come i primi chilometri che seguono un confine contengono segnali di ciò che ci siamo lasciati alle spalle, la transizione è progressiva. Il transito del confine è momento di grande presenza: prepariamo i documenti, sistemiamo la macchina, predisponiamo tutto in modo tale che il varco sia il più liscio possibile. Un certo stato di agitazione ci anima e, appena varcato il confine, ci sentiamo sollevati ma allo stesso tempo energizzati, pronti per esplorare la nuova terra che ci troviamo davanti. Succede lo stesso al nostro undicesimo piegamento sulle braccia, al nostro primo discorso in pubblico, durante una sessione di meditazione quando superiamo il nostro tempo abituale di pratica, al primo giorno senza il nostro conforto preferito (sigarette, alcol, caffè, dolci o quello che preferite), alla nostra prima presa di posizione, alle nostre prime scuse, al nostro primo film al cinema da soli, alla nostra prima escursione alpinistica più complessa rispetto a ciò a cui siamo abituati, alla partenza per un lungo viaggio: qualunque sia il confine, stiamo entrando in un territorio vergine, i nostri sensi sono allertati, siamo in uno stato di meraviglia e paura per il varco che stiamo attraversando, siamo risoluti e delicati allo stesso tempo, portiamo nel cuore la terra dalla quale arriviamo ma siamo eccitati dal desiderio di scoprire nuovi orizzonti. Se ci approcciamo al limite con nobiltà d’animo e un cuore puro, la sbarra che ci impedisce di passare si alzerà e noi potremo attraversare la frontiera.

Il continuo allenamento comincia nel tempo a produrre dei cambiamenti e il nostro “tempo di allenamento” si espande. Sentiamo il desiderio di allenarci di più e piano piano introduciamo un terzo giorno di allenamento, poi un quarto, ecc. Ma questo desiderio comincia a pervadere anche la nostra vita “civile”. E quindi cominciamo naturalmente ad avere abitudini più sane: mangiamo meglio, dormiamo meglio e di più, sopportiamo meglio lo sforzo e la “pesantezza” della quotidianità, le piccole o grandi attività tediose con cui siamo costantemente portati a confrontarci. E passiamo dal pensare “che palle!” a quella luce accesa negli occhi che mette in evidenza il nostro incrollabile intento. Kung Fu significa “abilità acquisita attraverso lo sforzo ripetuto”, spesso è sintetizzata semplicemente come “duro lavoro”. Confrontarci costantemente con la fatica ci permette di conoscerla meglio, arriviamo a momenti di stremo così alti che non abbiamo neanche più la forza di opporci e così andiamo avanti, senza neanche più pensare alla sofferenza, ci arrendiamo. Iniziamo a guardare quei piccoli processi che scattano quando siamo sull’orlo del cedimento. Grazie alla ripetizione, al sostegno del gruppo, alla motivazione che il nostro Maestro o Istruttore è in grado di trasmettere, le piccole voci moleste che ci demotivano, che ci fanno spesso fare un passo indietro, cominciano ad essere meno presenti. E tutta la nostra vita ne viene condizionata, tutta la nostra vita in un qualche modo diventa Kung Fu, o meglio, viene pervasa dallo spirito del Kung Fu. Fare le scale diventa Kung Fu, mangiare sano diventa Kung Fu, fare la spesa e portarla a casa diventa Kung Fu, cambiare il rotolo di carta igienica diventa Kung Fu. Piano piano ci rendiamo conto che abbiamo sviluppato un intento, una volontà che ci sostiene in tutte le cose che facciamo, abbiamo una presenza che ci fa andare dritti al cuore delle attività a cui ci approcciamo, eliminando quella fase fastidiosa e lamentosa che ci fa costantemente procrastinare le attività che non abbiamo voglia di fare. Wu wei, agire senza sforzo. Se siamo in  completa presenza e armonia tutto si svolge naturalmente, senza sforzo, anche se si tratta di un’azione tediosa o faticosa. Semplicemente perché è la cosa naturale da fare, non c’è pensiero che la guida, é semplicemente ciò che deve essere.

Nel corso della pratica siamo costantemente circondati da altre persone, a livelli differenti di esperienza e con caratteristiche fisiche, mentali e spirituali diverse dalle nostre (e da tutti gli altri). In una scuola di arti marziali c’è un continuo scambio con gli altri: essere circondati da altre persone che si stanno misurando con i propri limiti crea uno spirito di appartenenza, crea sostegno, fiducia reciproca, aiuto. Vediamo altri fare esercizi meglio o peggio di noi, li vediamo sostenere sforzi più o meno facilmente di noi. Anche questo innesca dei processi. Motivazione sicuramente, perché il gruppo ci sostiene e la fatica pesa di meno, perché in una scuola sana i membri più esperti aiutano quelli meno avanzati, perché guardando chi è più esperto di noi scatta il pensiero che anche dal nostro albero un giorno potranno prodursi quei frutti. Il mondo delle arti marziali è indubbiamente molto gerarchico, ma allo stesso tempo è trasversale: ci sono continui scambi tra tutti i membri della scuola, non esistono classi principianti e classi avanzate, si pratica quasi sempre tutti insieme, è una continua contaminazione. La pratica delle arti marziali è molto legata al singolo individuo, ma il sodalizio con i miei compagni e compagne è fortissimo. Ci si sostiene, ci si motiva, si suda insieme, si soffre insieme, si gioisce insieme, si percepisce l’energia degli altri che si mescola alla nostra. Se si pratica tanto in gruppo, i nostri compagni e compagne di pratica diventano una famiglia e, anche se nella vita ordinaria non ci si frequenta, nel tempo di pratica il legame che ci tiene uniti è immenso, anche quando non si pratica più insieme. Stare in un gruppo in questa modalità ci spinge ad essere la versione migliore di noi stessi, prendiamo ispirazione dalle esperienze degli altri per fare ogni giorno un passo in più. E se io miglioro, il gruppo migliora. Molte delle pratiche che ho svolto nella mia vita, anche oltre il Kung Fu, sono pratiche individuali, ma il sostegno del gruppo e la motivazione ispirata da altri praticanti rimangono delle componenti imprescindibili, sono il motore che mi permette di avanzare. La mia energia si muove nel mondo, l’isolamento è importante in alcune fasi, ma nessuna ricerca autentica può avvenire in un “laboratorio”, sono parte del Tutto e al Tutto devo costantemente ritornare. 
Ma come sempre c’è un altro lato della medaglia, Yin e Yang, e il confronto ci può portare a deprimerci o arrabbiarci perché nonostante i continui tentativi non riusciamo a fare un certo esercizio come vorremmo o come lo fa “Pinco Palla”. E qui io ho incontrato uno dei miei più grandi compagni di vita: IL GIUDIZIO. Magari non tutti lo vivranno in maniera potente come succede a me, ma tutti e tutte in una qualche forma e ad un qualche livello lo sperimentano. Quando non siamo centrati, le emozioni di rabbia e sconforto portano spesso ad un pensiero giudicante. Verso gli altri e/o verso noi stessi. Quanti nomi ho tirato nella mia mente ai miei compagni o alle mie compagne per una critica costruttiva sull’esecuzione di una tecnica, o semplicemente nel vedere che sapevano fare qualcosa meglio di me. O quanto spesso mi sono bullato vedendo qualcuno fare un esercizio peggio di me. Per poi immediatamente giudicarmi per aver giudicato. La fatica e la concentrazione ci riportano immediatamente fuori da quel giudizio, ma vedere questi pensieri ci porta progressivamente a guardare le dinamiche di giudizio nella nostra vita di tutti i giorni, per scoprire che sono dappertutto, onnipresenti. Viviamo e cresciamo in una cultura del giudizio, la respiriamo in famiglia, al lavoro, con gli amici. Abbiamo sempre un giudizio su qualunque cosa e sentiamo continuamente la necessità di esprimerlo. Sediamo su uno scranno, battiamo il martello, “Silenzio in aula!” ed emettiamo i nostri verdetti inappellabili. Cominciare a prendere consapevolezza di ciò è importante, perché questo ci porterà progressivamente a disinnescare questi pensieri, a guardarli sempre meglio e intercettare il momento in cui un giudizio espresso o ricevuto comincia ad generare delle conseguenze, delle emozioni che poi possono a loro volta portare a delle azioni. Tutto questo normalmente avviene in maniera del tutto inconsapevole, provocando spesso ripercussioni negative nella nostra vita. Esserne consapevoli ci porta naturalmente a rompere questa catena e a non provocare un effetto valanga con enorme beneficio per me e per gli altri. Togliamo un altro velo, varchiamo un’altra frontiera.

Abbiamo detto tante cose sulle arti marziali, e tante ne diremo nei prossimi post, e di come praticare queste discipline inneschi processi i cui impatti si espandono ben al di là dell’attività in sé. L’attività in sé è irrilevante, è un espediente e ognuno di noi seguirà il suo percorso. Quello che per me è fondamentale è l’attitudine con cui la si svolge e vi voglio lasciare con una metafora che spesso il mio Maestro Walter Gjergja racconta. Progredire lungo un percorso, qualunque esso sia, è come coltivare un campo. Ariamo il nostro terreno, eliminiamo i sassi e le erbacce, lo seminiamo, lo concimiamo, lo innaffiamo, lo proteggiamo dagli animali e dalle intemperie. I semi piano piano cominciano a germogliare, le piante crescono e quando sarà il momento produrranno i loro frutti. Il processo che mi porta a cogliere il frutto è spontaneo, non posso tirare fuori le piante dalla terra, non posso far sì che i frutti crescano nella metà del tempo. Il mio lavoro è semplicemente funzionale ad assecondare un processo, a renderlo fluido e sano, ma comunque impiegherà il suo tempo fisiologico. Pensare “devo raccogliere 100 kg di mele entro la primavera” non ha nessun senso, perché le mele saranno pronte in momenti diversi dell’anno a seconda della tipologia e perché ci sono tanti elementi fuori dal mio controllo che possono influenzare il raccolto. Potrebbe esserci un’alluvione o violente grandinate e il mio raccolto si dimezzerà, oppure potrebbe esserci una stagione meravigliosa e il raccolto sarà doppio rispetto alle mie aspettative. Oppure se mi metto a guardare il campo del mio vicino potrei sconfortarmi perché il suo raccolto è migliore, senza magari tenere presente che il suo terreno è più fertile o che ha più risorse per procurarsi attrezzature migliori. Se mi focalizzo su un risultato e quel risultato viene disatteso, possono scattare solo disperazione e afflizione. L’unica cosa che è in mio potere è avere cura del mio campo, con le risorse a mia disposizione e coltivarlo con impegno. I frutti, il risultato, seguiranno naturalmente e saranno proporzionati alle risorse che sono in grado di mettere a disposizione. 
Se spostiamo l’attenzione dalla performance, da ciò che vogliamo o pensiamo di dover ottenere, al coltivare, al prenderci cura di ciò che stiamo facendo, scopriremo un processo incredibilmente morbido e naturale, anche nei momenti più faticosi. Saremo liberi dalle ansie di raggiungere un risultato, di ottenere qualcosa e ci metteremo nella condizione di goderci il processo e accogliere quello che arriverà quando dovrà arrivare. Ovviamente questo non vuol dire che dobbiamo stare fermi ad aspettare per tutta la vita in attesa che le cose arrivino da sole, il nostro agire nel mondo è fondamentale. Ma questo agire non avrà una finalità, un obiettivo, un traguardo, sarà semplicemente un agire puro e disinteressato, totalmente concentrato sul momento presente, senza dietrologie o proiezioni.

Vi ringrazio e vi saluto. Quest’attività di scrittura si sta rivelando molto preziosa, una bellissima occasione di condivisione, confronto, riflessione. Non mi ero mai dato il tempo di guardare alla mia esperienza con questa attenzione e ad ogni post mi meraviglio incredibilmente nel constatare quanta ricchezza c’è in questo percorso. Mi ricorda un bellissimo discorso fatto da Steve Jobs a Stanford in occasione di una cerimonia di laurea, in cui, parlando della propria esperienza fatta di tante scelte senza un senso apparente, ad un certo punto dice “non si possono connettere i puntini in avanti, ma solo indietro”. Questa frase mi è sempre rimasta scolpita nella mente ed è stupefacente per me verificare ora che tutti i miei puntini, percorsi apparentemente casualmente e disorganicamente, oggi abbiano un senso ben preciso.

Da ultimo vi ricordo che questo progetto vive di donazioni. Permettersi di donare è un’arte da praticare e più lo facciamo, più ci diamo l’opportunità di osservare la nostra gratitudine e il desiderio di esprimerla seguirà naturalmente. Anche questo è un limite, da esplorare senza giudizio, con cura e amore.

Amituofo 🙏